Matrimoni combinati
È partito tutto dai piedi. improvvisamente erano piedi da uomo, ero un uomo, in piedi di fronte al mare ad aspettare la barca dei nostri alleati, dietro di me il mio popolo. Avevo una tunica bianca e al collo portavo un monile di metallo color oro che raffigurava un sole o qualcosa del genere. Aspettavamo la barca che avrebbe condotto da noi una popolazione che viveva al di là del mare e per noi significava alleanza e prosperità. Mia figlia era promessa sposa al figlio del capo villaggio che stava arrivando su quell’imbarcazione. Arrivano, ci salutiamo, andiamo a parlare in una tenda mentre, all’esterno c’è una festa di benvenuto e fidanzamento. Parliamo una lingua che in questa vita non conosco, ma in qualche modo riesco a ripetere alcune parole. Mi viene naturale dire che è aramaico. Parliamo per assicurarci che le condizioni siano chiare, siamo entrambi tranquilli e soddisfatti. Facciamo conoscere i futuri sposi. Ho insistito io perché si conoscessero. Non è la prassi, ma sapere che si piacciono è un sollievo e una tale felicità che mi commuove. Riconosco nel figlio del mio alleato colui che è mio nipote in questa vita. Anche io mi sono sposato senza conoscere la mia sposa, che è morta da tanti anni ormai. Sono stato fortunato, siamo stati bene, ma non ci siamo sposati per amore, ma per volere di altri.
Alla festa di fidanzamento servono carne speziata, l’atmosfera è rilassata e entusiasta. (non mi ricordo l’insegnamento che ho ricevuto qui)
Facciamo un piccolo salto in avanti, al momento di unire i due giovani. Sono io a celebrare il rito, consacrato a una dea con le corna di cervo, che protegge le unioni. I due si tengono per mano, tra di loro c’è una piccola colonnina che regge un cestino, vengono cosparsi di olio in alcuni punti del corpo, le braccia, la fronte, e ai loro piedi vengono posti dei rami e rametti, a simboleggiare le corna della dea. Li lego, in questa vita, attraverso questo rito.
(non mi ricordo l’insegnamento che ho ricevuto qui)
Passa il tempo, è un altro momento importante per me, quello di abbandonare il villaggio poiché stanno arrivando delle tribù pericolose per noi che viviamo in armonia. I nostri alleati vengono a prenderci, con le loro navi, e io guardo il villaggio che diventa sempre più piccolo mentre ci allontaniamo. Sono consapevole che talvolta il cambiamento è necessario e che l’attaccamento non serve, è giusto staccarsi dalle cose quando arriva il momento e bisogna farlo serenamente. Quando arriviamo nel paese dei nostri alleati è tutto così colorato da farmi sorridere e commuovere. Loro sono vestiti in maniera diversa da noi, noi siamo più semplici e vestiamo di bianco, risaltiamo in tutto quel colore, ci guardano, ma non con sospetto. Capisco che scoprire cose nuove è importante, che non bisogna aver paura della diversità. Vado a trovare mia figlia nel palazzo principale, dove ora vive con il marito e i figli, ma non voglio vivere con loro. Dalle finestre dell’edificio si vede il mare e le costruzioni sottostanti e tutti i loro colori. Ho chiesto e ottenuto di costruire nuove abitazioni per il mio popolo, a ridosso della città. Vivrò lì, pur frequentando mia figlia e il palazzo.
Passa il tempo, sono più vecchio, è tempo di ritirarmi. Non ho più al collo il monile con il sole, l’ho dato a mia figlia. I miei nipoti, un maschio e una femmina, sono più grandi adesso. Vivo in mezzo alla mia gente, ormai integrata con il popolo di cui adesso facciamo parte. Il marito di mia figlia viene insignito del titolo di reggente, sono felice.
Passa il tempo, è il momento della mia morte. Intorno a me c’è mia figlia e suo marito, che ormai considero mio figlio, e i miei nipoti. Mi sento molto amato. Nel momento di lasciare il corpo desidero che siano felici, lo spero con tutto il mio cuore. Vado nella luce, una luce viola che diventa giallo brillante. Sento mia figlia piangere, da lontano. Alcuni essere di Luce mi prendono per mano e mi accompagnano. E’ stata una vita felice. (non mi ricordo l’insegnamento che ho ricevuto qui)
Torno in una vita, all’incirca 1800, in Inghilterra, sono una femmina. La mia famiglia è povera, ho solo mia madre, mio padre viene a trovarci qualche volta ma i miei genitori non sono sposati. Non è affettuoso con me. Ho due fratelli, uno più piccolo e uno più grande, ma entrambi sono molto più alti di me e siamo molto diversi anche se a tavola scherziamo insieme.
Vado a scuola, mia madre ha risparmiato per mandarmi a una scuola per persone più abbienti di noi, è il primo giorno di scuola e l’insegnante è molto dolce. Imparo a scrivere il mio nome, Luisa, copiando le lettere che mi indica la maestra. Sono una bambina intelligente, e mia madre si aspetta un buon futuro per me.
Passa il tempo, divento segretaria in uno studio di avvocati e notai, sono rispettata ma non sono soddisfatta.
Passa il tempo, conosco un ragazzo di una famiglia ricca (forse nobile), ci fidanziamo. C’è amore tra noi, e molto, ma inizialmente la convenienza ha giocato il suo ruolo. Sono rispettata, sono felice della posizione che ho raggiunto. Non sopporto la povertà, guardo la gente povera con sdegno, rifiuto il mio passato, me ne vergogno.
Quando muoio (credo in circostanze molto drammatiche) comprendo l’insegnamento di questa vita: è giusto impegnarsi per quello che si vuole ottenere, ma anche che
(ecco, neanche questo lo ricordo completamente, mi dispiace!)